Lavoro è libertà e dignità
Il Job Act cambia le regole del mercato del lavoro: dove andrà a finire la dignità del lavoratore sotto la continua minaccia del licenziamento?

“Norme sulla tutela della libertà e dignità del lavoratori”. Così inizia la legge 300 del 1970, conosciuta dai più come Statuto dei Lavoratori. La legge che contiene il famoso articolo 18 sulla protezione dal licenziamento senza giustificato motivo o giusta causa.
Libertà e dignità. Voglio partire da qui per una breve analisi delle novità introdotte dal governo con il Job Act sull'articolo 18. Ometterò quindi gli altri aspetti, di cui alcuni positivi, quali l'introduzione del contratto di ricollocazione, la modifica dell'indennità di disoccupazione e le nuove politiche attive per l'occupazione.
Torniamo alla disciplina dei licenziamenti.
Chi verrà assunto a tempo indeterminato a partire dal 1 gennaio 2015 potrà essere licenziato anche con un motivo economico manifestamente infondato (che potremmo quindi definire un pretesto) per veder svanire il proprio posto di lavoro. Infatti se il giudice dovesse riconoscere come manifestamente infondato il motivo addotto per il licenziamento, non potrà far altro che obbligare il datore di lavoro ad un compenso monetario da un minimo di 4 mensilità fino a un massimo di 24 a favore dell’ormai ex dipendente. È evidente che, in questo modo, il lavoratore sarà sempre tenuto sotto ricatto dall’imprenditore che potrà licenziarlo in qualsiasi momento. Come si può garantire, a questo lavoratore, la propria libertà e dignità sul posto di lavoro?
Si potrebbe obiettare: oggi, ormai, la stragrande maggioranza delle assunzioni si fanno con contratti a tempo determinato o con contratti ancora peggiori (ad esempio Co.co.pro. o false partite Iva). Verissimo. Negli intenti del governo c’è proprio l’apprezzabile intento di favorire, attraverso un’importante decontribuzione, il contratto a tempo indeterminato. Che garantisce, seppur senza articolo 18, importanti diritti quali maternità, ferie, malattia, eccetera.
Il punto, a mio avviso, è però questo: sarà il dipendente in grado di far valere i propri diritti nei fatti e non solo sulla carta, se continuamente sotto la minaccia di perdere il proprio posto di lavoro?
L’unica fattispecie che di fatto continuerà a prevedere il reintegro (tutela reale) del lavoratore è il licenziamento discriminatorio. Il problema starà su come bisognerà provarlo davanti alla giustizia. Dovremo aspettarci, ovviamente, un aumento abnorme delle cause per licenziamento discriminatorio e vedremo come la giurisprudenza si regolerà a questo riguardo.
Un’altra obiezione alla contrarietà rispetto al Job Act potrebbe facilmente essere: in questo momento di dilagante e fortissima disoccupazione l’urgenza è nel creare posti di lavoro. Se, per ottenere ciò, è necessario rinunciare a qualche diritto, se ne può anche parlare. Il punto è che molto difficilmente le nuove regolamentazioni porteranno ad un aumento dei posti di lavoro. Il pensiero che sta alla base di questa "illusione" è quella di richiamare investitori principalmente stranieri attirati dalla possibilità di licenziare facilmente i lavoratori che meno aggradano loro. Ma perché mai bisognerebbe produrre in Italia? Per il mercato interno o per poi esportare?
Proviamo a ipotizzare cosa potrà accadere alla domanda interna dopo il Job Act.
Dal punto di vista psicologico, il lavoratore assunto con la nuova tipologia contrattuale avrà più timore di perdere il proprio posto, preferendo dunque risparmiare di più per crearsi un “cuscinetto di sicurezza” penalizzando i consumi.
Inoltre, i salari tenderanno ad abbassarsi principalmente per due motivi. La contrattazione collettiva sarà più difficile se effettuata da lavoratori (o loro rappresentanti) costantemente sotto minaccia di licenziamenti di fatto ad nutum. Chi potrebbe lottare per un aumento quando dall’altra parte rischia un licenziamento?
Un altro modo per innalzare il livello del proprio salario è la contrattazione individuale: ad esempio cercare un’Azienda che paghi di più rispetto all’attuale posto di lavoro. Ma ora tutti coloro che hanno un impiego a tempo indeterminato contratto con il vecchio regime tenderanno a non lasciare l’attuale posizione protetta, rinunciando piuttosto all’aumento retributivo che il nuovo posto potrebbe garantire.
Dunque, è probabile attendersi in un orizzonte temporale di medio lungo periodo una diminuzione del salario netto. Riducendosi la disponibilità dei dipendenti la domanda interna dovrebbe dunque calare ancora.
La speranza dovrebbe essere quella, a questo punto, di poter produrre di più in Italia per esportare. Uno scenario che fa gola ad ogni Paese: produrre al proprio interno, avere occupazione e lavoro per poi vendere al di fuori dei confini. È evidente, però, che non tutti gli Stati possono essere esportatori netti: per esportare di più, ci vorrà pur che qualcuno importi, a meno che non si voglia esportare su Marte.
Chi sono i paesi che esportano di più al mondo?
Cina, Stati Uniti e Germania.
La Germania, evidentemente, non punta sulla svalutazione del lavoro interno per esportare (ha infatti salari più alti dei nostri, un sindacato molto forte e una buona protezione reale dai licenziamenti), ma sulla qualità dei propri prodotti. Solitamente, alta qualità significa alta preparazione dei lavoratori che vanno quindi adeguatamente retribuiti e tutelati.
Gli Stati Uniti anche esportano principalmente altissima tecnologia, con lavoratori dell’eccellenza pagati molto bene. Certo, per correttezza va considerato che gli Stati Uniti hanno nel proprio mercato del lavoro delle differenze profonde tra lavoratori di alta professionalità e lavoratori dalle mansioni più basse che sono scarsamente tutelati sia sul lavoro sia dalla sicurezza sociale. Inoltre, gli USA sono anche esportatori di petrolio.
Rimane la Cina. Ma se vogliamo diventare competitivi con la Cina, seppur sulla buona strada, abbiamo ancora molto da imparare: il lavoro va svalutato molto di più!!!
Dunque al momento, grazie al solo Job Act, l’Italia non parrebbe granché più attraente neppure per chi volesse esportare: chi ha intenzione di puntare su alta qualità continuerà a produrre in Usa o nella vicina Germania che, grazie a numerose misure non ultima una formazione eccellente dei propri cittadini, garantisce un’ottima qualità della forza lavoro. Chi ha invece idea di puntare su prodotti di qualità più bassa, continuerà a rivolgersi ai mercati cinesi (o dell’Europa dell’est per esempio) che garantiscono salari molto più bassi dei nostri.
Se, quindi, con il Job Act non riusciremo né ad esportare di più né ad avere un mercato interno più florido cosa avremo ottenuto?
Noi nulla, ma la classe dirigente avrà qualcosa in più da spartirsi alle nostre spalle. Al prezzo più difficile da accettare: quello della nostra dignità.
Articolo di Beppe CAPOZZOLO - Coordinamento Fiba Cisl Torino e Provincia